L’illusione dell’efficienza nel recruiting moderno
Negli ultimi anni il recruiting si è sempre più affidato a strumenti digitali e sistemi automatizzati di screening dei curriculum, noti come ATS (Applicant Tracking System). Questi software hanno un compito apparentemente semplice: scremare centinaia di candidature e restituire all’azienda una rosa di profili “compatibili”. In teoria, un risparmio di tempo e risorse. In pratica, però, il meccanismo si è trasformato in una gabbia che riduce le persone a una sequenza di parole chiave. Il paradosso è evidente: mentre la tecnologia avrebbe dovuto aprire nuove opportunità, in realtà ha reso invisibili proprio quei candidati che potrebbero fare la differenza. Professionisti con vent’anni di esperienza, manager con ruoli direttivi, consulenti capaci di gestire crisi aziendali vengono esclusi non perché non abbiano le competenze, ma perché il loro CV non contiene esattamente i termini previsti dall’algoritmo. È come se l’intero valore di una carriera fosse ridotto a un esercizio di copy-paste: se non scrivi “budgeting” invece di “gestione finanziaria”, vieni scartato.
Il talento che non passa la dogana digitale
Immaginiamo un aeroporto: l’ATS è come un metal detector che decide chi può passare e chi no. Solo che, al posto delle armi, cerca keyword. Se nel tuo curriculum scrivi “responsabile team di vendita” ma la job description richiede “sales manager”, il sistema non ti riconosce. Poco importa se hai guidato gruppi complessi, aperto nuovi mercati o gestito clienti internazionali: il filtro ti blocca alla frontiera. Questo meccanismo crea un’invisibilità sistemica del talento. Le aziende si lamentano di non trovare figure qualificate, ma spesso è l’algoritmo stesso che le esclude. E qui sorge la domanda: quanti progetti di successo sono stati frenati o non sono mai partiti perché il candidato giusto non è mai arrivato al colloquio? Chi lavora con la selezione dovrebbe avere il coraggio di ammettere che l’uso cieco di queste tecnologie non è sinonimo di efficienza, ma di perdita di valore.
Il rischio di costruire aziende “mediocri”
Quando un sistema selettivo elimina i profili più complessi e ricchi di esperienza, quello che rimane è una lista di candidati “standard”. Persone che magari rispondono perfettamente alla descrizione del ruolo, ma che non portano nulla di più. Così si crea un terreno fertile per la mediocrità organizzativa: team composti da esecutori, non da innovatori. In altre parole, si rischia di assumere persone “giuste” solo sulla carta, ma incapaci di affrontare sfide impreviste. Il mercato del lavoro, già fragile, si appiattisce su logiche da “fotocopia”. Eppure la storia di molte PMI e grandi aziende insegna che le svolte decisive sono arrivate proprio da figure “fuori schema”, da chi aveva competenze eccedenti, trasversali, capaci di rompere le regole del gioco. L’ATS, invece, cancella questo tipo di profilo come un errore da correggere. Ma un errore per chi? Per l’azienda o per il software?
La responsabilità dei recruiter e delle aziende
È troppo facile scaricare tutta la colpa sui software. In realtà, la responsabilità ultima resta dei recruiter e delle aziende che li utilizzano. L’ATS non è un’entità autonoma: è uno strumento scelto e impostato da persone. Il problema nasce quando queste persone lo usano come se fosse infallibile, rinunciando a una valutazione umana e critica delle candidature. In questo modo il recruiter abdica al suo ruolo: da selezionatore, capace di leggere tra le righe, si trasforma in un semplice operatore tecnico che preme un bottone e accetta la lista che ne esce. Ma il valore di un buon recruiter sta proprio nella capacità di riconoscere potenziale e talento anche quando non coincidono con una scheda precompilata. Se un curriculum racconta una storia di risultati concreti, perché lasciarlo nel cestino solo perché non contiene la formula magica giusta?
Un problema che riguarda tutti: candidati e imprese
Non è solo un dramma dei candidati esclusi, ma un boomerang che colpisce anche le imprese. Ogni volta che un profilo di valore viene scartato senza motivo, l’azienda perde un’opportunità. E nel lungo periodo, questo si traduce in costi nascosti: turnover elevato, team deboli, mancanza di leadership interna. È come scegliere sempre e solo le viti che entrano perfettamente nel foro, senza accorgersi che alcune delle migliori soluzioni possono richiedere un minimo di adattamento. L’impresa che pretende la copia conforme della job description dimentica che il lavoro reale è fatto di cambiamenti, problemi imprevisti, adattamento continuo. Chi ha vissuto già mille battaglie sa come affrontarli. Ma se non arriva mai al colloquio, tutto questo resta fuori dalla porta.
La provocazione: davvero un algoritmo deve decidere chi vale?
Arrivati a questo punto, la domanda è inevitabile: davvero vogliamo che un algoritmo decida il destino delle persone e il futuro delle aziende? È un tema che non riguarda solo i candidati, ma la qualità stessa del nostro tessuto imprenditoriale. In un Paese come l’Italia, dove le PMI rappresentano oltre il 90% del mercato, possiamo permetterci di escludere a priori esperienze decennali solo perché non scritte nella forma “giusta”? L’invito è chiaro: recruiter, HR manager, imprenditori, candidatevi voi stessi alla discussione. Raccontate le vostre esperienze, positive o negative. Diteci se davvero credete che l’efficienza valga più della sostanza. Perché il talento invisibile non è un problema dei candidati: è una perdita collettiva.