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Sovraqualificato? O semplicemente la persona giusta?

3 Set, 2025

L’etichetta che taglia le gambe

La parola “sovraqualificato” è diventata una delle etichette più abusate e più dannose nei processi di selezione. Viene usata come una formula neutra, quasi elegante, per dire a un candidato: “Lei è troppo per noi”. Ma cosa significa davvero? Che avere competenze, esperienze e responsabilità superiori a quelle richieste da un annuncio sia un difetto? La logica sembra quella di chi ha paura che un professionista con più abilità del previsto possa creare squilibri all’interno dell’azienda. Dietro a questa etichetta, in realtà, si nasconde spesso la volontà di evitare sfide, di ridurre al minimo i rischi. Un candidato “sovraqualificato” viene visto come potenzialmente instabile: si pensa che resterà poco tempo, che non accetterà uno stipendio medio, che guarderà dall’alto in basso colleghi e manager. Ma questi sono solo pregiudizi. Molti professionisti scelgono ruoli al di sotto della loro esperienza per motivi personali, familiari o semplicemente per la voglia di fare un lavoro più concreto e meno dispersivo. Scartarli in automatico significa ridurre la ricchezza umana e professionale che potrebbero portare. Eppure, questa è prassi comune. Le aziende dichiarano di voler crescere, ma quando si trovano davanti a chi potrebbe davvero farle crescere, preferiscono chiudere la porta con un sorriso di circostanza e un “lei è troppo qualificato per noi”.

Il mito del candidato perfetto

Le job description vengono scritte come se fossero liste della spesa: cinque anni di esperienza in questo, tre in quell’altro, conoscenza del gestionale X, capacità di lavorare in team e di rispettare le scadenze. Chi esce da questo schema viene automaticamente visto come non idoneo. Ma il lavoro vero non è mai un insieme di caselle da spuntare. La realtà quotidiana delle imprese, specialmente delle PMI, è fatta di problemi inattesi, di cambiamenti repentini, di mercati che oggi sono promettenti e domani crollano. In questo contesto, un candidato “perfettamente allineato” può garantire solo un’esecuzione standard, senza offrire nulla di più. Un candidato “sovraqualificato”, invece, porta con sé una cassetta degli attrezzi più ampia, che spesso si rivela decisiva. Ma questo non entra nelle logiche dei recruiter, che temono le deviazioni dallo standard. Il mito del “candidato perfetto” è in realtà una comoda illusione: non esiste nella pratica, ma viene usato come parametro di esclusione. È la stessa logica con cui si preferisce il candidato “fotocopia”, perfettamente aderente al foglio di requisiti, anche se privo di visione, di coraggio e di capacità di innovare. È più rassicurante avere qualcuno che faccia esattamente quello che è scritto, piuttosto che aprire le porte a chi potrebbe portare cambiamento. Ma senza cambiamento, un’impresa oggi rischia di restare ferma e, alla lunga, di perdere terreno rispetto ai concorrenti.

La paura dietro il no

Dietro l’etichetta “sovraqualificato” si nasconde quasi sempre la paura. Paura che il candidato chieda uno stipendio troppo alto, e che quindi il budget non regga. Paura che una volta assunto, si annoi e lasci l’azienda dopo poco, generando costi di turnover. Paura che metta in difficoltà i manager interni, mostrando competenze o leadership superiori. Paura, infine, che possa destabilizzare gli equilibri di potere interni, facendo emergere le carenze di chi oggi occupa ruoli decisionali. In molti casi, il rifiuto non nasce quindi da una valutazione oggettiva del candidato, ma da una reazione difensiva di chi seleziona. Eppure, la paura di oggi rischia di trasformarsi nel rimpianto di domani. Perché mentre un’azienda rifiuta un candidato troppo bravo “perché non sostenibile”, magari un concorrente più lungimirante lo accoglie e ne raccoglie i frutti. La verità è che un professionista esperto non è solo un costo: è un acceleratore. È qualcuno che può ridurre i tempi di formazione, anticipare i problemi, trasmettere conoscenze a tutta la squadra. Ma se lo scarti a priori, non lo saprai mai. E continuerai a lamentarti che sul mercato non ci sono “persone valide”. Il problema è che ci sono: sei tu che non hai voluto vederle.

Il valore nascosto dell’esperienza

Un candidato considerato “sovraqualificato” non è un lusso inutile, ma una risorsa preziosa. Pensiamo al tempo che serve per formare un neoassunto. Spesso ci vogliono mesi, se non anni, perché raggiunga la piena produttività. Un professionista esperto, invece, può essere operativo quasi da subito. Porta con sé processi collaudati, capacità di gestire imprevisti e soprattutto una visione più ampia, frutto di anni in contesti diversi. Questo significa che può individuare errori prima che accadano, proporre soluzioni già testate, guidare i colleghi meno esperti, diventando un punto di riferimento naturale. Tutto questo ha un valore economico enorme, anche se spesso non viene calcolato nei bilanci aziendali. Le imprese tendono a vedere solo il costo della retribuzione, senza mettere a bilancio i risparmi e i guadagni indiretti che un profilo esperto porta con sé. È come guardare il prezzo di un macchinario senza calcolare la produttività che può garantire. Il risultato è che si rinuncia a una risorsa strategica solo perché si ragiona a breve termine. E questo, in un mercato competitivo, equivale a perdere opportunità che non torneranno più.

Le motivazioni vere contano più dei titoli

Un errore enorme dei processi di selezione è quello di giudicare i candidati solo dal loro CV, senza ascoltarne le motivazioni. Se una persona con vent’anni di esperienza si candida per un ruolo più operativo, il pensiero immediato è: “Non è credibile, resterà solo pochi mesi”. Ma chi lo ha detto? Forse quella persona vuole cambiare vita, ridurre lo stress, trovare un equilibrio migliore tra lavoro e famiglia. Forse è appassionata di un settore specifico e vuole rimettersi in gioco partendo da un ruolo più concreto. Forse ha già raggiunto traguardi importanti e ora cerca soddisfazioni diverse, meno legate alla carriera e più alla sostanza del lavoro quotidiano. Scartare qualcuno senza ascoltarlo equivale a basarsi su pregiudizi. La domanda giusta non è: “Perché accetta un ruolo al di sotto del suo livello?”, ma: “Cosa lo motiva davvero a scegliere questa posizione?”. Capire la motivazione reale di un candidato è molto più importante che incasellarlo in una griglia di requisiti. Perché se la motivazione è autentica, l’azienda non solo avrà una persona competente, ma anche qualcuno che resterà a lungo e darà valore.

La provocazione finale: coraggio o mediocrità?

Alla fine, il nodo è semplice: le aziende hanno il coraggio di assumere persone più brave di quanto richieda la job description, o preferiscono restare nella comfort zone della mediocrità? Accogliere un candidato “sovraqualificato” significa assumersi un rischio, certo, ma anche aprirsi a una possibilità di crescita che altri non avranno. E qui la domanda va posta non solo ai recruiter, ma agli imprenditori stessi: volete persone che facciano esattamente quello che chiedete, o persone che vi costringano a guardare più in alto? La storia del business ci insegna che le svolte decisive arrivano spesso da chi non era previsto, da chi aveva “troppo” valore rispetto al ruolo formale. Eppure, sono proprio queste figure a fare la differenza. Quindi la vera provocazione è: preferite aziende piatte, dove nessuno mette mai in discussione nulla, o aziende vive, che sanno crescere anche grazie a chi porta più di quanto richiesto? La risposta la daranno i fatti, ma intanto la discussione è aperta: candidati, recruiter, HR manager, imprenditori. Quante volte vi siete sentiti dire “sovraqualificato”? E quante volte avete usato questa parola come scudo?

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