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Il tabù dell’età: quando l’esperienza diventa un difetto

4 Set, 2025

L’ageismo nascosto nel mercato del lavoro

In Italia, e non solo, c’è un grande non detto nel mondo del lavoro: l’ageismo, ovvero la discriminazione basata sull’età. È un fenomeno subdolo, perché raramente viene dichiarato apertamente, ma agisce in maniera sotterranea e costante. Professionisti che hanno superato i 45 o 50 anni iniziano a percepire un muro invisibile che li esclude da colloqui, selezioni e opportunità di carriera. Un muro fatto di pregiudizi: “troppo vecchio per imparare cose nuove”, “troppo lento per stare al passo con la tecnologia”, “troppo rigido per adattarsi a un’organizzazione moderna”. La realtà, invece, dimostra il contrario: chi ha affrontato anni di cambiamenti in diversi settori ha sviluppato proprio quelle capacità di resilienza e adattamento che oggi sono indispensabili. Eppure, il mercato continua a privilegiare i più giovani, spesso meno costosi e più “modellabili”, lasciando ai margini una fascia di professionisti che rappresentano una risorsa preziosa. Questo tabù, mai affrontato seriamente, mina la qualità complessiva del capitale umano delle imprese e produce una società in cui l’esperienza diventa paradossalmente un difetto.

I numeri che non mentono

I dati europei mostrano chiaramente la portata del problema. Secondo Eurostat, in Italia solo il 56% delle persone tra i 55 e i 64 anni è occupato, contro una media europea del 63%, con punte del 70% in Paesi come Germania e Svezia. Questo significa che decine di migliaia di professionisti con competenze consolidate vengono esclusi non perché non abbiano voglia di lavorare o capacità da offrire, ma perché considerati “fuori tempo massimo”. Paradossalmente, nello stesso momento in cui si discute di innalzare l’età pensionabile per garantire la sostenibilità del sistema previdenziale, le aziende continuano a scartare chi ha superato i cinquant’anni. È una contraddizione strutturale: lo Stato chiede ai cittadini di lavorare più a lungo, ma il mercato non offre spazi adeguati a chi ha più esperienza. In questa frattura si perdono opportunità enormi: competenze artigianali, managerialità collaudate, memoria storica dei settori, capacità di problem solving maturate sul campo. È un capitale umano che non può essere sostituito solo da giovani brillanti, perché esperienza e intuizione non si comprano con un master.

Il pregiudizio che costa caro alle imprese

L’idea che un lavoratore maturo sia meno produttivo è una semplificazione che resiste per comodità, ma i fatti dimostrano altro. Le imprese che hanno saputo valorizzare la diversità generazionale mostrano spesso performance superiori, perché combinano l’energia e la creatività dei giovani con la stabilità e la visione dei senior. Uno studio di Harvard Business Review ha evidenziato che i team intergenerazionali hanno una maggiore capacità di innovare e di risolvere problemi complessi. Eppure, i recruiter continuano a temere che assumere un over-50 significhi rallentare il ritmo o aumentare i costi. Il risultato è che molte aziende scelgono la via più breve, privandosi di un vantaggio competitivo reale. Non solo: l’esclusione sistematica dei lavoratori maturi crea anche un costo sociale, perché aumenta il numero di persone che restano fuori dal mercato ma non ancora in pensione, generando precarietà, insoddisfazione e talvolta disperazione. È un costo invisibile che paghiamo tutti, in termini di welfare, di coesione sociale e di perdita di conoscenze.

Esperienza come risorsa, non come ostacolo

Un professionista di 50 o 60 anni non è un peso per l’azienda, ma un acceleratore di processi. Ha già vissuto ristrutturazioni, crisi, transizioni tecnologiche. Sa come gestire imprevisti e conflitti interni, conosce i meccanismi non scritti del business e può trasmettere queste competenze a chi ha meno esperienza. In un’epoca in cui le imprese investono milioni in formazione, perché non utilizzare questa risorsa già pronta e disponibile? Il problema è culturale: si continua a pensare che l’esperienza irrigidisca, che chi ha un lungo percorso alle spalle sia meno disposto a cambiare. Ma la realtà è spesso opposta: chi ha dovuto reinventarsi più volte nel corso della carriera è molto più allenato al cambiamento rispetto a chi ha appena iniziato. E se è vero che alcune competenze tecniche possono invecchiare, la capacità di visione, di leadership e di decisione non hanno scadenza. Anzi, diventano più raffinate col tempo. Perché allora continuiamo a vedere l’età come un problema?

Il peso della comunicazione e dell’immagine

C’è un altro aspetto poco discusso: la comunicazione. Spesso i candidati maturi faticano a raccontare la propria esperienza in un linguaggio che i recruiter percepiscono come “attuale”. I CV lunghi e densi, le descrizioni troppo dettagliate o gli stili comunicativi più tradizionali diventano un ostacolo in un mercato che parla per keyword, LinkedIn e storytelling veloce. Così, anche chi ha molto da offrire rischia di non essere compreso. Ma la responsabilità non è solo dei candidati: è delle aziende che non sanno valorizzare la narrazione dell’esperienza, e dei recruiter che si lasciano guidare da filtri automatici invece che dalla capacità di leggere tra le righe. Un’azienda intelligente dovrebbe saper riconoscere che dietro un CV “classico” può esserci un patrimonio di conoscenze difficilmente sostituibile. Ma finché il mercato continuerà a ragionare in termini di immagine più che di sostanza, l’età resterà un tabù mascherato da formalismi.

La provocazione: davvero l’Italia può permettersi di sprecare esperienza?

La domanda finale è diretta e scomoda: in un Paese con un’età media tra le più alte d’Europa, possiamo davvero permetterci di sprecare l’esperienza dei lavoratori maturi? L’ageismo non è solo un problema etico, è un suicidio economico. In un sistema produttivo fondato sulle PMI, ogni competenza persa è un danno competitivo. La provocazione è rivolta a tutti: recruiter che preferiscono il profilo giovane “modellabile”, imprenditori che guardano solo al costo immediato e non al valore nel tempo, istituzioni che parlano di allungare la vita lavorativa senza costruire strumenti per renderla davvero sostenibile. Se l’esperienza diventa un difetto, allora significa che stiamo scegliendo consapevolmente di impoverire le nostre aziende. La sfida non è escludere chi ha più anni sulle spalle, ma integrare competenze diverse in un ecosistema capace di crescere. E adesso la parola passa a voi: candidati senior, HR manager, imprenditori. Raccontate: vi siete mai sentiti scartati solo per l’età? O avete mai scartato qualcuno perché “troppo maturo”? È il momento di aprire un dibattito vero, perché il futuro del lavoro non può basarsi sul rifiuto del passato.

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