La gabbia dorata della job description
Negli ultimi anni la job description è diventata una sorta di “tavola della legge” nei processi di selezione. Ogni annuncio è un elenco minuzioso di requisiti: anni di esperienza esatti, conoscenze di specifici software, lauree precise, competenze tecniche descritte con un linguaggio che ricorda più un manuale di ingegneria che un’offerta di lavoro. Questo approccio, apparentemente ordinato e razionale, si trasforma in una gabbia dorata che imbriglia sia i candidati che le aziende. Per il recruiter diventa un alibi perfetto: se un curriculum non contiene la parola chiave esatta, viene scartato senza nemmeno un colloquio. Per l’azienda è una rassicurazione illusoria: “abbiamo trovato il candidato giusto, corrisponde esattamente al nostro annuncio”. Ma davvero il lavoro reale può ridursi a un elenco puntuale? La storia ci dimostra il contrario: i ruoli cambiano, le competenze richieste evolvono, le imprese che crescono non sono quelle che cercano la fotocopia del passato, ma quelle che osano inserire figure capaci di andare oltre lo schema prestabilito. Il rischio, altrimenti, è costruire un’azienda fatta di “ingranaggi sostituibili”, persone che eseguono senza creare, che occupano una casella ma non la trasformano mai.
L’illusione del candidato perfetto
Il mercato del lavoro è ossessionato dal concetto di “fit perfetto”. Ci si illude che esista il candidato ideale, colui che possiede esattamente tutte le competenze richieste, né una in più né una in meno. Ma nella realtà questa figura è un miraggio. Ogni professionista è un insieme complesso di esperienze, attitudini, errori superati e successi conquistati. Pretendere che qualcuno corrisponda al 100% a una lista statica di requisiti significa ignorare la ricchezza delle persone. Ancora più grave, significa rinunciare a quella componente di “diversità cognitiva” che è la vera benzina dell’innovazione. Un’azienda che assume solo chi corrisponde al profilo che ha immaginato, si condanna a un futuro di stagnazione: processi che non cambiano, idee che non emergono, opportunità che sfuggono. Invece, assumere qualcuno che porta competenze in più o diverse da quelle richieste può aprire strade inattese: un ex imprenditore che diventa responsabile commerciale può trasferire visione strategica; un ex manager può trasformarsi in un consulente interno prezioso. Il candidato perfetto, insomma, non è chi corrisponde alla lista, ma chi riesce a spingere l’azienda oltre i suoi limiti.
Il prezzo della paura di sbagliare
Dietro la mania della fotocopia si nasconde un grande tema culturale: la paura di sbagliare. In un contesto in cui ogni errore sembra imperdonabile, molti recruiter e manager preferiscono “giocare in difesa”. Meglio scegliere un candidato che combaci perfettamente con la job description, così da potersi giustificare in caso di problemi: “abbiamo seguito le linee guida”. Ma questa è una logica da burocrate, non da costruttore di futuro. E ha un costo altissimo. Secondo un report di Deloitte, oltre il 60% delle aziende italiane lamenta difficoltà nell’innovazione e nell’adattamento ai cambiamenti del mercato. Eppure, gli stessi datori di lavoro sono spesso i primi a chiudere le porte a chi potrebbe portare quell’innovazione, solo perché “non rientra nel profilo”. È come se una squadra di calcio, per paura di sbagliare acquisto, prendesse solo giocatori identici a quelli che già ha: nessuno si stupirebbe se poi perdesse contro avversari più creativi. La paura di sbagliare porta all’immobilismo. E l’immobilismo, in un mondo che corre, equivale a retrocedere.
Il caso delle PMI italiane: quando il copia-incolla diventa un boomerang
Le piccole e medie imprese italiane conoscono bene questa dinamica. Molte faticano a trovare personale qualificato, eppure continuano a pubblicare annunci che sembrano scritti per un candidato ideale che non esiste. Un esempio concreto: un’azienda del settore manifatturiero del Nord Italia cercava un “junior export manager” con dieci anni di esperienza internazionale, tre lingue, capacità di negoziare contratti complessi e una conoscenza avanzata di software gestionali. Risultato? Nessuna candidatura “in target”. I profili arrivati erano o troppo junior, oppure manager con troppa esperienza che venivano etichettati come “sovraqualificati”. L’azienda ha impiegato mesi per coprire la posizione e ha perso contratti importanti all’estero. Un altro caso, al contrario, vede protagonista una startup tecnologica lombarda che, cercando un semplice commerciale, ha scelto un ex dirigente con esperienza in grandi multinazionali. Quel manager, invece di “scappare” dopo pochi mesi, ha contribuito a strutturare la rete vendita e a triplicare il fatturato in due anni. Due scelte opposte, due risultati radicalmente diversi. Il messaggio è chiaro: il copia-incolla delle job description può diventare un boomerang che costa molto più caro di un eventuale stipendio più alto.
5. La responsabilità dei recruiter e degli imprenditori
Qui la provocazione è inevitabile: i recruiter e gli HR manager vogliono essere guardiani della porta o costruttori di futuro? Se si limitano a seguire alla lettera la job description, diventano semplici esecutori, figure che applicano filtri senza esercitare il loro vero valore professionale: la capacità di leggere il potenziale umano oltre le parole scritte. Al contrario, un recruiter di qualità è colui che sa riconoscere un talento “fuori schema”, che sa raccontarlo all’imprenditore e che ha il coraggio di dire: “Questo candidato non corrisponde al 100% al profilo, ma può portare molto di più”. Il problema è che questo coraggio spesso manca, anche per colpa di imprenditori che chiedono rassicurazioni e non crescita. Eppure, il compito delle risorse umane dovrebbe essere quello di accompagnare il cambiamento, non di bloccarlo. Senza un cambio di mentalità, il rischio è che i recruiter diventino burocrati del lavoro, e che le aziende smettano di essere luoghi di innovazione per trasformarsi in uffici amministrativi che si limitano a replicare il passato.
La provocazione finale: fotocopie o pionieri?
E allora arriviamo alla domanda che voglio lasciare a tutti: preferite aziende piene di fotocopie o aziende capaci di crescere grazie a chi porta qualcosa di nuovo? Perché ogni volta che scartiamo un candidato “fuori profilo” stiamo scegliendo consapevolmente di restare nella comfort zone. Ogni volta che un recruiter usa la job description come una gabbia, l’azienda perde l’occasione di avere tra le sue fila qualcuno che potrebbe cambiare le regole del gioco. In un Paese come l’Italia, dove le PMI devono affrontare sfide globali, innovazione tecnologica e concorrenza spietata, non possiamo permetterci aziende che si limitano a replicare il passato. Servono pionieri, non fotocopie. Serve il coraggio di guardare oltre la scheda tecnica e di scommettere sulle persone nella loro interezza, non solo sui requisiti scritti. Ora la parola passa a voi: recruiter, HR, imprenditori, candidati. Qual è la vostra esperienza? Quante volte avete visto vincere la fotocopia e perdere il talento? E soprattutto: siamo pronti a cambiare rotta o continueremo a costruire aziende destinate a restare ferme mentre il mondo corre avanti?