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L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE NON CI CAMBIA: CI SVELA

23 Nov, 2025

La tecnologia come nuovo specchio dell’umanità

Viviamo in un periodo storico dove ogni argomento divide, ma pochi dividono quanto l’intelligenza artificiale. È quasi curioso: la società è ormai polarizzata su tutto, dalla sicurezza ai vaccini, dall’economia ai mestieri, dalle tasse alla politica locale. L’AI non è diversa: diventa il nuovo terreno dove proiettiamo timori, ambizioni, identità ferite e ruoli da difendere. Non è un caso che molti detrattori parlino dell’AI senza averla mai provata seriamente, come accadeva un tempo negli scontri tra chi guidava e chi temeva la strada. Nel dibattito pubblico la maggioranza delle critiche nasce dalla non conoscenza: i contrari non contestano l’uso dell’intelligenza artificiale, contestano l’idea dell’AI che si sono costruiti nella mente. E spesso utilizzano come “prova” proprio gli errori di chi la usa male, senza formazione e senza consapevolezza. È un meccanismo antico: non attacco la tecnologia, attacco chi la utilizza male per giustificare la mia posizione. Ma questo non è un confronto tecnico: è antropologia pura. L’AI non divide perché è pericolosa, ma perché costringe ciascuno di noi a mostrarsi per ciò che è. È un grande specchio: chi è fragile vede un nemico, chi è curioso vede un’opportunità, chi è pigro vede un rischio, chi è competente vede un alleato.

Le percentuali che confondono: dati veri contro dati comodi

Una parte del dibattito anti-AI si regge su percentuali usate come arma retorica. I critici dicono: “La maggioranza delle persone usa male l’AI”. Ma è come dire che la patente è inutile perché esistono cattivi autisti. La verità è che chi contesta l’AI spesso non la usa affatto, quindi non può confrontare realmente risultati, limiti, potenzialità. Non possiamo chiamare “analisi” ciò che è solo paura numerica. Chi è contrario all’AI cita due categorie di utenti: quelli che scrivono sciocchezze usando l’AI come pappagalli e quelli che agiscono senza capire le conseguenze. Ma ogni tecnologia ha attraversato questa fase: telefoni, automobili, internet, social network. Se prendiamo la storia del digitale, il fenomeno è identico: non è il mezzo a generare errori, è il livello di consapevolezza dell’utente. Molti dei detrattori, però, non criticano gli utenti: criticano la possibilità stessa che l’AI democratizzi competenze, acceleri processi, riduca barriere. La loro paura non è che l’AI sbagli, ma che altri possano usarla meglio di loro. E allora il dibattito si sposta: non è più “AI sì o no”, ma “AI che mette in discussione il mio ruolo professionale”. Quando una tecnologia rende obsolete alcune sicurezze, chi non vuole aggiornarsi costruisce numeri adatti alla propria narrazione.

Paura del futuro o paura di perdere potere?

Una grande parte delle resistenze non deriva dalla tecnologia, ma dall’ego. Le persone non temono che l’AI “prenda il sopravvento”: temono che qualcuno, grazie all’AI, possa fare più di loro. Temono di non essere più i depositari di una conoscenza esclusiva. Temono che si scopra quanto dei loro processi fosse automatizzabile da anni. Temono che la loro identità professionale si riveli fragile. La rivoluzione dell’AI ricorda, in modo sorprendente, il trauma della prima industrializzazione: gli artigiani che rompevano i telai non temevano la macchina in sé, ma il fatto di non controllare più il processo. Oggi chi attacca l’AI prevede “perdite di lavoro” ma parla soprattutto del proprio settore, del proprio ruolo, delle proprie abitudini. È una difesa psicologica: “Se la tecnologia mi sostituisce, allora è sbagliata”. Ma il problema non è l’AI: è la dipendenza dalle certezze. Le macchine non vogliono niente: non hanno desideri, non competono, non pretendono status. Siamo noi che viviamo la tecnologia come una minaccia perché abbiamo costruito un’identità fragile attorno al compito, non alla competenza. E un mondo che cambia rapidamente è la prova più dura per chi ha smesso di migliorarsi.

L’AI amplifica ciò che siamo, non ciò che vorremmo essere

Qui sta il nodo centrale: l’intelligenza artificiale non crea nulla che non esista già nell’essere umano che la utilizza. Se sei superficiale, l’AI amplifica la superficialità. Se sei rigoroso, amplifica il metodo. Se sei aggressivo, amplifica il conflitto. Se sei generoso, amplifica la capacità di aiutare. L’AI è un moltiplicatore, non un trasformatore dell’anima. Non trasforma un asino in un cavallo da corsa: al massimo gli dà un motore, ma la testa resta quella. È uno strumento potentissimo che, se usato senza consapevolezza, rende più visibili i limiti dell’utente. È come consegnare un’auto da 500 cavalli a chi non ha mai guidato: l’errore non sarà della vettura. Il punto critico è che molti usano l’AI per confermare sé stessi, non per migliorarsi. Copiano, incollano, ripetono, si specchiano in parole non loro. Ma l’AI non può colmare il vuoto culturale o la mancanza di studio. Può invece trasformare chi ha già un’identità forte, una curiosità viva, un metodo di lavoro solido. Non migliora l’essenza dell’uomo, ma estende la sua capacità d’azione. Chi ha qualcosa da dire, grazie all’AI lo dice meglio. Chi non ha nulla da dire, lo dice più velocemente.

La tentazione distruttiva: quando la tecnologia riflette il nostro lato oscuro

La diffidenza verso l’intelligenza artificiale si ripete identica alla storia dell’energia nucleare: una scoperta straordinaria usata inizialmente per distruggere prima ancora che per migliorare la vita. L’errore non è della tecnologia, ma dell’uomo. Ogni innovazione porta con sé una parte luminosa e una parte oscura. Non perché sia buona o cattiva, ma perché l’essere umano contiene entrambe. Il punto non è chiedersi se l’AI sarà pericolosa: è chiedersi quanto siamo maturi per utilizzarla. Oggi siamo in un momento critico: l’AI potrebbe generare benessere diffuso, sicurezza diffusa, efficienza diffusa. Ma può anche diventare un’arma di manipolazione, di propaganda, di controllo. Non per colpa dell’AI, ma per colpa dell’utilizzo egoistico che qualcuno vorrà farne. Il vero rischio è l’uomo che vede nell’AI uno strumento per amplificare il proprio potere, non per costruire bene comune. Ma questa non è una novità: è la storia stessa dell’umanità. Il cambiamento non dipenderà dalla tecnologia, ma da quanto saremo capaci di guardare dentro noi stessi senza mentire. E di accettare che il problema non è ciò che costruiamo, ma ciò che siamo.

Il futuro è fantastico, ma richiede responsabilità e maturità

Viviamo la fase più affascinante della storia tecnologica: mai l’uomo ha avuto a disposizione tanta potenza cognitiva. L’AI ci libererà da compiti ripetitivi, velocizzerà processi, proteggerà persone, aumenterà la produttività delle PMI, permetterà a interi settori di modernizzarsi. Ma questo futuro fantastico richiede maturità. Richiede consapevolezza. Richiede cultura. Richiede metodo. Non possiamo continuare a vedere il futuro come una minaccia quando è la nostra occasione più grande. Chi vede catastrofi sta proiettando se stesso, non la realtà. Le paure della popolazione sono sempre le stesse: perdita di lavoro, perdita di controllo, perdita di significato. Ma la verità è che perderà solo chi sceglie di non evolvere. Chi studia, chi sperimenta, chi si mette in gioco sarà più forte di prima. La tecnologia non ci ruberà ciò che siamo; ci ruberà solo ciò che non eravamo più in grado di sostenere. E questo, forse, è un bene.

Il compito di Conflombardia nei prossimi anni

Conflombardia ha un dovere strategico: guidare le PMI nel futuro senza ideologie, senza paure irrazionali, senza estremismi. Preparare imprenditori e datori di lavoro a usare l’AI come leva di crescita e di responsabilità. Creare cultura, offrire strumenti, accompagnare la trasformazione. Non per sostituire l’uomo, ma per liberarlo. Il futuro non è da temere: è da costruire. E chi vuole contribuire al vero dibattito è chiamato a portare la sua voce, oggi.

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